“…Tempo variabile, con tendenza a forti precipitazioni sparse…”. Non si tratta di una semplice previsione meteo, la quale potrebbe essere facilmente affrontata con un minimo di cautela nella programmazione del week-end; ci si riferisce, invece, al più delicato e preoccupante fenomeno dell’incertezza delle regole destinate a disciplinare i più importanti profili della nostra vita sociale.
Ad onor di metafora, infatti, il quadro complessivo di tutti quei meccanismi che condizionano le nostre scelte di vita più significative appare come una “cartina metereologica” assolutamente non confortante. Le sensazioni di instabilità finiscono inevitabilmente per prevalere fino al punto di presidiare costantemente ogni possibile valutazione consapevole.
Tuttavia, le “possibilità di schiarite” (per rimanere in tema) sono certamente indispensabili, o quantomeno auspicabili.
Fra queste, non può essere assolutamente trascurata l’apertura al miglioramento del “clima” nella sfera dei rapporti economico-finanziari, così come determinata dalla recente sentenza n. 78 del 5 aprile 2012 pronunciata dalla Corte Costituzionale in materia di anatocismo bancario.
Più precisamente, attraverso il provvedimento citato, la Consulta è intervenuta con forza nellavexata quaestio degli equilibri negoziali che vengono esplicati nell’ambito dei contratti di conto corrente, affermando in modo chiaro la ragionevolezza e la necessaria funzione garantista del c.d. “principio di simmetria”, che, in senso lato, codifica proprio la fondamentale esigenza di certezza quale requisito indispensabile nei rapporti bancari e rappresenta uno dei più significativi obiettivi perseguiti dagli atti di Basilea.
Segnatamente, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 61, del D.L. 29 dicembre 2010, n. 225, convertito, con modificazioni, dalla Legge 26 febbraio 2011, n. 10, con cui veniva decisa la cancellazione di una importante conquista per la tutela degli interessi dei cittadini e delle imprese avverso le pratiche illegittime dell’anatocismo bancario.
La disposizione richiamata apparteneva all’assetto normativo comunemente noto come “decreto milleproroghe” e ben presto veniva etichettata come norma “salva-banche”. La ragione giustificatrice di una simile qualificazione definitoria era da attribuirsi all’efficacia deflattiva dei contenzioni instaurati contro gli stessi istituti di credito in materia di anatocismo, e, quindi, per contrastare il fenomeno del calcolo illecito degli interessi sugli interessi a svantaggio del correntista. In buona sostanza ed in estrema sintesi, senza pretesa di esaustività tecnica, la citata norma riduceva le possibilità per il correntista di richiedere giudizialmente alla banca la restituzione delle somme indebitamente pagate a titolo di interessi anatocistici. Essenzialmente, sotto lo schermo di un ingegnoso congegno prescrittivo ad efficacia retroattiva (cioè, anche per i processi già pendenti), la norma retrofissava il termine di decorrenza del periodo utile per l’espletamento della tutela giudiziaria (10 anni, non più dalla data di chiusura del rapporto bancario, bensì dal momento in cui il correntista aveva provveduto all’effettivo pagamento dell’importo anatocistico mediante versamento sul proprio conto della somma corrispondente, secondo le determinazioni procedurali dell’istituto di credito), consentendo così alla banca di esimersi dal relativo accertamento giudiziale (pendente o potenziale) di responsabilità, appunto, per intervenuta prescrizione (estinzione) del diritto del correntista alla restituzione del quantum indebitamente pagato. Dal combinato disposto delle enunciazioni normative sancite dalla disposizione in parola, quindi, veniva sostanzialmente imposto un divieto generalizzato per il correntista di ottenere la restituzione delle somme ingiustamente pagate alla banca a titolo di interessi anatocistici anteriormente al 26 febbraio 2011.
Stando alle riflessioni della Consulta, sotto la vigenza della regola in esame veniva alterata sensibilmente la simmetria degli equilibri contrattuali nei rapporti di conto corrente, ad esclusivo danno del singolo utente del sistema creditizio: infatti, precisa la Corte, la disposizione produceva l’effetto di “…ridurre irragionevolmente l’arco temporale disponibile per l’esercizio dei diritti nascenti dal rapporto, pregiudicando la posizione dei correntisti che, nel contesto giuridico anteriore all’entrata in vigore della norma, abbiano avviato azioni dirette a ripetere somme illegittimamente addebitate…”. In questi termini, l’applicazione della norma censurata realizzava una inammissibile disparità di trattamento tra banche ed utenti poiché attribuiva un ingiustificato privilegio in favore delle prime, così pregiudicando il contraente debole, ossia il correntista. Tale conclusione, poi, veniva ulteriormente rimarcata in considerazione del fatto che il termine di decorrenza della prescrizione risultava individuato in un momento che attiene essenzialmente alla pratica operativa della banca (la c.d. annotazione), con la manifesta conseguenza che il correntista si trovava persino nella oggettiva impossibilità di conoscere il reale frangente temporale che segnava la nascita del proprio diritto ad ottenere la restituzione delle somme indebitamente pagate a titolo di anatocismo.
Inoltre, la norma in argomento era tale da impedire lo svolgimento di un adeguato ed effettivo diritto di difesa in favore del correntista, il quale rischiava di essere privato degli specifici strumenti istruttori offerti dalle dinamiche del giusto processo, con particolare riferimento alle consulenze tecniche che, in quanto tali, hanno la capacità di consentire la verificazione obiettiva ed attendibile delle posizioni bancarie, al netto di errori, vizi e nullità contrattuali.
Infine, il vaglio di costituzionalità non ha risparmiato nemmeno la scelta retroattiva della disposizione censurata, ponendola in evidente contrasto con i principi generali di uguaglianza e di ragionevolezza, nonché con i vincoli derivanti dall’ordinamento europeo. Pertanto, in quest’ottica, risultavano assolutamente infondati ed inesistenti i motivi imperativi di interesse generale che, in armonia con il sistema giuridico interno ed in conformità al diritto comunitario convenzionale, avrebbero dovuto giustificare l’efficacia retroattiva della norma “salva-banche”.
Le riflessioni che precedono consentono di valorizzare il decisivo pronunciamento della Corte Costituzionale, la quale ha paralizzato un dettato normativo capace di frustrare, in concreto e pesantemente, i principi di tutela del risparmio delle famiglie e delle imprese, e, quindi, la fondamentale libertà di iniziativa economica che, specie nell’attualità del “Sistema-Italia”, deve invece essere alimentata con rinnovata linfa vitale. In questa direzione, allora, sarebbe auspicabile promuovere la conoscenza e l’applicazione degli opportuni strumenti di trasparenza che, anche mediante l’ausilio tecnico-professionale, sono certamente idonei a sviluppare le giuste sinergie operative fra tutti i soggetti che animano i vari settori del panorama sociale, tra cui, appunto, quello economico-finanziario (si pensi, ad esempio, agli strumenti utili per il miglioramento del ratingaziendale per quanto attiene all’implementazione efficiente e bilaterale dei rapporti “Banca-Impresa”).
All’esito dell’intervento della Consulta, pertanto, viene autorevolmente ribadita la validità del principio di diritto già consolidato nell’insegnamento della giurisprudenza di legittimità anteriormente al febbraio 2011: “…se, dopo la conclusione di un contratto di apertura di credito bancario regolato in conto corrente, il correntista agisce per far dichiarare la nullità della clausola che prevede la corresponsione di interessi anatocistici e per la ripetizione di quanto pagato indebitamente a questo titolo, il termine di prescrizione decennale cui tale azione di ripetizione è soggetta decorre, qualora i versamenti eseguiti dal correntista in pendenza del rapporto abbiano avuto solo funzione ripristinatoria della provvista, dalla data in cui è stato estinto il saldo di chiusura del conto in cui gli interessi non dovuti sono stati registrati…” (Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 24417 del 2 dicembre 2010).
Per concludere con il gergo inizialmente mutuato: “…ampie schiarite sul versante della tutela contro l’anatocismo bancario…”
Tuttavia, le “possibilità di schiarite” (per rimanere in tema) sono certamente indispensabili, o quantomeno auspicabili.
Fra queste, non può essere assolutamente trascurata l’apertura al miglioramento del “clima” nella sfera dei rapporti economico-finanziari, così come determinata dalla recente sentenza n. 78 del 5 aprile 2012 pronunciata dalla Corte Costituzionale in materia di anatocismo bancario.
Più precisamente, attraverso il provvedimento citato, la Consulta è intervenuta con forza nellavexata quaestio degli equilibri negoziali che vengono esplicati nell’ambito dei contratti di conto corrente, affermando in modo chiaro la ragionevolezza e la necessaria funzione garantista del c.d. “principio di simmetria”, che, in senso lato, codifica proprio la fondamentale esigenza di certezza quale requisito indispensabile nei rapporti bancari e rappresenta uno dei più significativi obiettivi perseguiti dagli atti di Basilea.
Segnatamente, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 61, del D.L. 29 dicembre 2010, n. 225, convertito, con modificazioni, dalla Legge 26 febbraio 2011, n. 10, con cui veniva decisa la cancellazione di una importante conquista per la tutela degli interessi dei cittadini e delle imprese avverso le pratiche illegittime dell’anatocismo bancario.
La disposizione richiamata apparteneva all’assetto normativo comunemente noto come “decreto milleproroghe” e ben presto veniva etichettata come norma “salva-banche”. La ragione giustificatrice di una simile qualificazione definitoria era da attribuirsi all’efficacia deflattiva dei contenzioni instaurati contro gli stessi istituti di credito in materia di anatocismo, e, quindi, per contrastare il fenomeno del calcolo illecito degli interessi sugli interessi a svantaggio del correntista. In buona sostanza ed in estrema sintesi, senza pretesa di esaustività tecnica, la citata norma riduceva le possibilità per il correntista di richiedere giudizialmente alla banca la restituzione delle somme indebitamente pagate a titolo di interessi anatocistici. Essenzialmente, sotto lo schermo di un ingegnoso congegno prescrittivo ad efficacia retroattiva (cioè, anche per i processi già pendenti), la norma retrofissava il termine di decorrenza del periodo utile per l’espletamento della tutela giudiziaria (10 anni, non più dalla data di chiusura del rapporto bancario, bensì dal momento in cui il correntista aveva provveduto all’effettivo pagamento dell’importo anatocistico mediante versamento sul proprio conto della somma corrispondente, secondo le determinazioni procedurali dell’istituto di credito), consentendo così alla banca di esimersi dal relativo accertamento giudiziale (pendente o potenziale) di responsabilità, appunto, per intervenuta prescrizione (estinzione) del diritto del correntista alla restituzione del quantum indebitamente pagato. Dal combinato disposto delle enunciazioni normative sancite dalla disposizione in parola, quindi, veniva sostanzialmente imposto un divieto generalizzato per il correntista di ottenere la restituzione delle somme ingiustamente pagate alla banca a titolo di interessi anatocistici anteriormente al 26 febbraio 2011.
Stando alle riflessioni della Consulta, sotto la vigenza della regola in esame veniva alterata sensibilmente la simmetria degli equilibri contrattuali nei rapporti di conto corrente, ad esclusivo danno del singolo utente del sistema creditizio: infatti, precisa la Corte, la disposizione produceva l’effetto di “…ridurre irragionevolmente l’arco temporale disponibile per l’esercizio dei diritti nascenti dal rapporto, pregiudicando la posizione dei correntisti che, nel contesto giuridico anteriore all’entrata in vigore della norma, abbiano avviato azioni dirette a ripetere somme illegittimamente addebitate…”. In questi termini, l’applicazione della norma censurata realizzava una inammissibile disparità di trattamento tra banche ed utenti poiché attribuiva un ingiustificato privilegio in favore delle prime, così pregiudicando il contraente debole, ossia il correntista. Tale conclusione, poi, veniva ulteriormente rimarcata in considerazione del fatto che il termine di decorrenza della prescrizione risultava individuato in un momento che attiene essenzialmente alla pratica operativa della banca (la c.d. annotazione), con la manifesta conseguenza che il correntista si trovava persino nella oggettiva impossibilità di conoscere il reale frangente temporale che segnava la nascita del proprio diritto ad ottenere la restituzione delle somme indebitamente pagate a titolo di anatocismo.
Inoltre, la norma in argomento era tale da impedire lo svolgimento di un adeguato ed effettivo diritto di difesa in favore del correntista, il quale rischiava di essere privato degli specifici strumenti istruttori offerti dalle dinamiche del giusto processo, con particolare riferimento alle consulenze tecniche che, in quanto tali, hanno la capacità di consentire la verificazione obiettiva ed attendibile delle posizioni bancarie, al netto di errori, vizi e nullità contrattuali.
Infine, il vaglio di costituzionalità non ha risparmiato nemmeno la scelta retroattiva della disposizione censurata, ponendola in evidente contrasto con i principi generali di uguaglianza e di ragionevolezza, nonché con i vincoli derivanti dall’ordinamento europeo. Pertanto, in quest’ottica, risultavano assolutamente infondati ed inesistenti i motivi imperativi di interesse generale che, in armonia con il sistema giuridico interno ed in conformità al diritto comunitario convenzionale, avrebbero dovuto giustificare l’efficacia retroattiva della norma “salva-banche”.
Le riflessioni che precedono consentono di valorizzare il decisivo pronunciamento della Corte Costituzionale, la quale ha paralizzato un dettato normativo capace di frustrare, in concreto e pesantemente, i principi di tutela del risparmio delle famiglie e delle imprese, e, quindi, la fondamentale libertà di iniziativa economica che, specie nell’attualità del “Sistema-Italia”, deve invece essere alimentata con rinnovata linfa vitale. In questa direzione, allora, sarebbe auspicabile promuovere la conoscenza e l’applicazione degli opportuni strumenti di trasparenza che, anche mediante l’ausilio tecnico-professionale, sono certamente idonei a sviluppare le giuste sinergie operative fra tutti i soggetti che animano i vari settori del panorama sociale, tra cui, appunto, quello economico-finanziario (si pensi, ad esempio, agli strumenti utili per il miglioramento del ratingaziendale per quanto attiene all’implementazione efficiente e bilaterale dei rapporti “Banca-Impresa”).
All’esito dell’intervento della Consulta, pertanto, viene autorevolmente ribadita la validità del principio di diritto già consolidato nell’insegnamento della giurisprudenza di legittimità anteriormente al febbraio 2011: “…se, dopo la conclusione di un contratto di apertura di credito bancario regolato in conto corrente, il correntista agisce per far dichiarare la nullità della clausola che prevede la corresponsione di interessi anatocistici e per la ripetizione di quanto pagato indebitamente a questo titolo, il termine di prescrizione decennale cui tale azione di ripetizione è soggetta decorre, qualora i versamenti eseguiti dal correntista in pendenza del rapporto abbiano avuto solo funzione ripristinatoria della provvista, dalla data in cui è stato estinto il saldo di chiusura del conto in cui gli interessi non dovuti sono stati registrati…” (Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 24417 del 2 dicembre 2010).
Per concludere con il gergo inizialmente mutuato: “…ampie schiarite sul versante della tutela contro l’anatocismo bancario…”